Come affrontare i processi di riqualificazione quando “il rapporto tra le aree-residenza e
elementi primari” non è più alla base della configurazione per tessuti della città e la casa
diventa monumentale memoria e gesto rappresentativo dello Stato? Concentrando lo sguardo
sul periodo tra gli anni 60' e 70' si rende evidente un intento congiunto delle amministrazioni e
degli architetti, attraverso la progettazione di complessi a scala macroscopica, spesso isolati
dal contesto classico della città, di creare una visione chiara ed iconica del ruolo assistenzialista
dello Stato. Questa stagione, sottolineata da scelte compositive in contrapposizione con la
visione “ordinaria” della città e della sua crescita per tessuti, raggiunge la sua massima
espressione nel “grande segno” che fa coincidere tipologia architettonica con morfologia urbana
e racconta di un’amministrazione che vuole essere il referente diretto per la risoluzione di
problematiche sociali e risponde in maniera reattiva e molto rapida alle questioni e alle esigenze
poste dalle sue classi più bisognose. Il primo valore da riconoscere ai progetti di questo periodo
è di essere stati rappresentativi di vocazioni collettive e di averle riassunte con un gesto
progettuale dall'alto valore iconografico. La seconda caratteristica di questa stagione
architettonica, continuando a restringere la valutazione ad una constatazione dei fatti scevra di
componenti di giudizio, è la sua ampia vocazione ad essere terreno sperimentale sia in ambiti
architettonici che urbanistici. La domanda che ci poniamo è se sia possibile ripartire da queste
due valori per re-interpretare i progetti dei grandi complessi residenziali pubblici e renderli
“abitabili” mantenendone le loro particolari vocazioni.